La marana

Non prendevo il trenino per Ostia da un po’. In piedi, guardando fuori dal finestrino tra Tor di Valle e Acilia, vedo alternarsi gruppuscoli di caseggiati di recente costruzione, alcuni già rifiniti, altri in via di conclusione. Altri ancora invece sono di più vecchia data, ma comunque relativamente recenti, separati dalla ferrovia da una rete alta e da vegetazione in buona parte spontanea e casuale.
Al confine ultimo di ognuno di questi caseggiati, tra loro separati da centinaia di metri di verde incolto e strade non particolarmente ampie e curate, sempre si allunga la marana.
Questa è una parola che alle mie orecchie ha una sua specificità esclusivamente romana, e che, pur padroneggiandone il significato nel mio personale vocabolario, ho fatto sempre fatica a rappresentarmi in testa come elemento del paesaggio urbano.

Blue lagoon, Aydın Büyüktaş – thisisnthappiness.com

Capita però sempre così, e in specie in questa città, che all’improvviso, per l’intervento casuale e involontario di una visione nient’affatto peculiare e anzi fin troppo ordinaria, si riattiva nella coscienza un sapere vago che giace atrofizzato e passivo in qualche meandro dell’intelligenza, e si rianima sotto forma di sorpresa, non del tutto gradita ma neppure realmente spiacevole.

Questo mi è capitato con la marana, sul trenino per Ostia un normale sabato mattina.

Guardando quei canali, i letti stretti e piani scavati di recente, la vicinanza alle case raggruppate e uniformemente intonacate, l’acqua stantia impastata di terra e residui inerti di sabbia e calcestruzzi edili, in cui scivolano lenti i rivoli delle latrine domestiche per procedere verso il fiume, e da lì verso il mare nella vaga e improbabile speranza di un incontro almeno fortuito con qualche impianto di depurazione, ho recuperato il valore e l’importanza fanciullesca della domanda grezza e improvvisa che assale i bambini ignari, per via della ristrettezza anagrafica della propria conoscenza del mondo, quando dopo vari tentativi giungono definitivamente ad abbandonare il vasino e a fare esperienza del water, e soprattutto dello sciacquone, che risucchia in un vortice istantaneo di pulizia ciò che prima restava depositato sul fondo piatto del simpatico e confortevole cagatorio di plastica colorata, portando via con sé nel vuoto oscuro della fogna le ordinarie vergogne della latrina. Ossia: dove va a finire la mia merda, e quella di tutti? Cosa c’è dall’altra parte dello scarico del mio cesso?

So che può apparire impoetico, e addirittura triviale, ma tant’è: la prima esperienza che un essere umano ha occasione di fare del concetto di “passaggio dinensionale” è proprio la riflessione acerba da infanti sul mondo possibile all’altro capo, invisibile e imperscrutabile, del WC, a cui si accede tramite il portale tutt’altro che mitologico e misterioso costituito dall’orinatoio ovale di ceramica, e dalla sua premessa sollevabile in plastica rigida: il copriwater.

A tutto ciò, la sequenza delle marane che ho scorso sul trenino per Ostia tra Tor di Valle e Acilia un normale sabato mattina, con quel tanto di acri miasmi che era facile immaginare da dietro il finestrino del vagone lento, è la brutale e onesta risposta, il tributo semplice e vendicativo che qualche infame dio del progresso urbano decide ogni tanto di fare alle anime belle di periferia, per tramortirne i sogni e le visioni e restringere le possibilità dell’immaginario alla sola sfera scatologica, che ha una sua verità infinitamente degna, oltre alla sua forte pertinenza col contesto e col paesaggio.

Epperò, lo scorrere lento della marana verso il mare è sempre l’immagine di una restituzione ultima e liberatoria del sé, dissolto e diluito nel marasma indistinto e liquido degli elementi, all’idea più concreta e accessibile di infinito da sempre a immediata disposizione dell’umanità, che è appunto il mare, che è profondo oltre quanto saremo mai in grado di raggiungere, e si muove incessantemente, anche di notte, portando ovunque in lungo e in largo – come farebbe proprio un portale dimensionale degno di questo nome – la nostra più invereconda propaggine, le nostre deiezioni, finalmente lontane e libere, almeno loro, da questo mondo di merda.

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